Io, bambino juventino stregato dal Como in Serie A

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Perché il calcio non è solo numeri, tattica, notizie ed opinioni. È anche e soprattutto passione, sentimenti, identità.

Nella primavera del 2002 avevo otto anni e mezzo. Crescevo a pane e calcio e abitavo nell’erbese. Il Como era la squadra della mia provincia e null’altro, anche perché non avevo familiari né compagni di scuola che tifassero Como. Ero juventino come mio padre e come il mio mito, Del Piero. Del doppio salto dalla C alla A firmato Dominissini non ho praticamente nessun ricordo: mentre molti di voi gongolavano grazie ai gol di Lulù Oliveira e alle urla di Nino Balducci, io probabilmente mi limitavo a dire: “Il Como in Serie A? Dai che bello…”.

Loris Dominissini (foto by Corriere di Como)

Quella storica promozione suscitava in me, juventino sfegatato, simpatia e curiosità. Le migliori squadre d’Italia sarebbero venute a giocare vicino a casa e io, mai stato allo stadio in vita mia, sarei potuto andare a vederle. In realtà i miei genitori non mi permisero di seguire i big match al Sinigaglia: “E se fanno a botte? È pericoloso”. La mia prima volta sugli spalti fu l’esordio casalingo, 0-2 contro l’Empoli. Ma poco importa il risultato: ero con mio nonno nei distinti e ricordo ancora la curva piena, l’arbitro Collina che all’epoca era una superstar, il traffico che iniziava a Tavernerio e io che fantasticavo sul fatto che quelle persone stessero andando tutte allo stadio. L’atmosfera mi piaceva: quell’anno ci tornai solo altre due volte, Como-Piacenza e non ricordo la terza, forse Como-Perugia. Il resto lo vidi a casa, con Tele+ e Stream. Ho ancora in testa come fosse ieri la vittoria sfiorata in casa della mia Juve (all’epoca ero combattuto, oggi maledico Zalayeta), le partite giocate a Piacenza (tra cui la prima vittoria stagionale, alla 1a di ritorno contro la Roma: che esultanza quella sera!), l’illusione-Fascetti, i tanti punti persi al 90’, il surreale 5-1 con cui battemmo il Bologna. La Juve vinse lo scudetto, ma la retrocessione del Como rese tutto un po’ più amaro.

Se prima della Serie A il Como mi suscitava solo simpatia e curiosità, quella stagione disgraziata fece nascere in me dei sentimenti. Il declino post-Preziosi mi portò a distaccarmi nuovamente, ma era un po’ come se il vulcano del mio amore per la squadra della mia città fosse solo dormiente e destinato a eruttare presto. E nell’adolescenza ho capito che la mia fede calcistica non poteva essere confinata a 170km di distanza, a Torino, per una squadra che dal vivo non avevo praticamente mai visto e con giocatori ricchissimi, famosissimi e irraggiungibili. Non sentivo mie né le vittorie, né le sconfitte. Nel 2009, ormai 15enne, permisi al mio vulcano di esplodere. Ricordate i playoff vincenti contro Rodengo e Alessandria? Ecco, da lì in poi il mio cuore è stato solo biancoblu. E da quasi dieci anni ho addirittura il privilegio di seguire la mia squadra giornalisticamente, anche se non è il mio lavoro principale. Ora vivo il calcio come secondo me va vissuto: come un passatempo, ma con il cuore.

Oggi un Como in Serie A avrebbe un effetto diverso. Io sono diventato grande e il calcio purtroppo è cambiato. Ma credo che in caso di promozione tanti bambini di oggi, invischiati nel tifo spesso freddo per le grandi strisciate, potrebbero innamorarsi dei lariani come è capitato a me. E allora speriamo. Prima o poi, prima che cumpisi vutant’an…

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