Da Como a Venezia, Roma e ritorno all’isola Comacina

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Storia di lumache ed altro

Festìna lente “Affrettati lentamente” è una locuzione latina attribuita all’Imperatore Augusto dallo storico latino Svetonio (ca. 69 – 126 d.C.) e che all’inizio del XVI sec. divenne consueta prima nelle strade di Venezia e poi nell’intera Europa. Questo “affrettati con calma”, era infatti il motto della tipografia aperta nel 1494 nella contrada di Sant’Agostino a Venezia da Aldo Manuzio, il primo editore in senso moderno in Europa. Le “edizioni Aldine”, si affrettarono (festìna) ad essere diffuse, mentre con calma (lente) divennero sempre più accurate e prestigiose. Manuzio espresse questo ossimoro con l’abbinamento di un’ancora (la solidità) con un delfino (la velocità) da lui ripresi da un’antica moneta romana donatagli dal Bembo. La stessa locuzione, “festìna lente”, trova riflesso simbolico nell’emblema della “tartaruga veliero” che Cosimo I de’ Medici, nel XVI secolo, usò per la sua flotta. La prudente tartaruga, sormontata dalla vela, che sotto l’azione dal vento diventa forza d’azione, era monito di ponderazione perché le imprese navali avessero successo. Questo simbolo, abbinato al motto, è ancora oggi visibile in decine di raffigurazioni su soffitti e pavimenti di Palazzo Vecchio a Firenze. Il medesimo significato è restituito dai “grilli gotici” studiati dal celebre storico dell’arte lituano Jurgis Baltrušaitis. Un soggetto frequente di queste invenzioni medioevali, che troviamo nei codici miniati, incisi su gemme o scolpiti su monumenti, sono delle conchiglie, ovverossia lumache, dal cui interno balza fuori di tutto, anche una lepre… e con lei, riecco l’affrettarsi mediante lentezza.

Ma torniamo in quei di Como e scorgiamo sul lato sinistro della cosiddetta Porta della Rana, posta sul lato N.O. del Duomo, il nostro primo oggetto d’attenzione. Alla base dell’infiorescenza che, a mo’ di tralcio rampicante ospita a mezza altezza la famosa rana che da il nome alla porta stessa, troviamo una lumaca sorretta da tartarughe. Una lumaca invero un poco insolita nella forma, simile ad un elmo rovesciato o una cornucopia, ma, tant’è, torna utile al nostro racconto e trova sostegno di coerenza inventiva nell’enigmaticità di tutte le raffigurazioni che ne vengono generate, infiorescenze vegetali interlacciate a presenze zoomorfe. Una rappresentazione fantasiosa che parrebbe voler mostrare il rigenerarsi della natura che si affretta a seguire i ritmi stagionali, dopo la ponderata attesa invernale, interrompendo il letargo della lumaca.

La Porta della Rana, pur esponendo per immagini i temi della fede, riprende la cultura precristiana nella comunicazione didattica e dottrinale che deriva dall’assimilazione che il Cristianesimo ha operato nei confronti delle strutture e dei simboli della imagerieclassica, dando loro un nuovo significato. Dato l’orientamento della cattedrale, la Porta della Rana accoglie e rappresenta difatti anche la culminazione solstiziale estiva del nostro astro, quando il sole raggiunge la massima altezza, lungo il proprio percorso, per iniziarne poi la conseguente discesa. Così come al contrario funge, riferendosi all’evento solstiziale invernale e alla nascita di Gesù, la corrispondente porta S.E. con la Fuga in Egitto rappresentata nella lunetta del sopraporta. Da questa seconda porta prende simbolicamente l’inizio quel percorso ciclico del sole che, sovrapponendo alla esperienza cosmica precristiana un percorso di elevazione spirituale, propone un pellegrinaggio virtuale; pellegrinaggio testimoniato anche dall’effigie di San Rocco, posta sul lato destro della porta, con tanto di conchiglia sul petto. Se da un lato la luminescenza della traccia lasciata dalla lumaca ricorda la Via Lattea del cammino verso Compostela, la conchiglia di San Rocco ricorda l’oggetto riportato dai pellegrini di ritorno dal santuario a testimonianza del compimento del percorso fino all’oceano. Le conchiglie esprimono generalmente e in ogni cultura il simbolismo della nascita, o della rinascita, e nella nostra religione ne troviamo ampiamente l’uso come tema di purificazione.

Ma, tornando ancora una volta sui nostri passi e alle lumache, pare che fino dall’epoca dell’antica Roma queste fossero ben conosciute e particolarmente apprezzate, sia come panacea terapeutica che come prelibatezza gastronomica. Ne sono testimoni storici e letterari i due Plini, zio e nipote che troneggiano in effigie sulla facciata del Duomo di Como. Plinio il Vecchio, lo zio, raccomanda come ottime in gastronomia (nella sua “Naturalis Historia”) le lumache tratte dalle Alpi Marittime, dalla Torre di Patria e dall’Isola Astipalea, oppure le Solitanae, le Siciliane, quelle di Maiorica e di Minorica. A più riprese, poi, ne descrive la natura, non tralasciando di magnificarne le qualità medicamentose, e descrive gli allevamenti per l’elicicoltura di Fulvio Irpino, che nutriva le sue chiocciole con cibo diverso e vino. Il nipote (Plinio il Giovane), forse fin troppo parsimonioso, apprezzandone il valore si lamenta con l’amico Setticio Claro di avergliene fatte sprecare ben tre per aver declinato un suo invito a pranzo.

Le lumache come cibo sono descritte per la prima volta nel ricettario “De re coquinaria” del gastronomo Marco Gavio Apicio, risalente probabilmente ai primi anni del I secolo a.C. La consuetudine al loro allevamento è riportata anche nel “De re rustica” daMarco Terenzio Varrone, nel 37 a.C. Vi leggiamo, (lib II cap 12): “Si dice che Q. Fulvio Lupinus ha nel distretto Tarquiniense una chiudenda di quaranta jugera, nella quale ha rinserrato non solo gli animali, dei quali ho parlato, ma ancora delle pecore selvagge… Inoltre nel medesimo ricinto sogliono quasi sempre avere dei luoghi destinati alle lumache…”. L’allevamento in questi “cocleari” prevedeva l’ingrasso delle lumache con farina ed erbe aromatiche.

Tirando le fila di quanto ho raccontato, la tradizionale Festa di San Giovanni, di cui ho già accennato nel mio precedente intervento su Comocity, da tempo immemorabile si tiene nell’Isola Comacina sul Lago di Como. Questa festa cade in corrispondenza del solstizio estivo e, nell’immaginazione popolare, viene ricordata per l’uso dei “Lumaghitt”, una luminaria realizzata facendo ardere olio da lucerna nei gusci vuoti della lumache. Tradizione, questa, invalsa in correlazione con la consuetudine gastronomica, non solo comasca, di consumare pietanze a base di lumache (ciumachelle nel Lazio, babbaluci in Sicilia ecc.) secondo molte ricette, proprio in questo periodo in cui esse abbondano favorite dal clima.

Si ritiene che la lumaca, secondo antiche credenze possa scacciare gli spiriti maligni, i contrasti e i rancori ed è forse per questo che il 24 giugno “festa dell’accrescimento del sole” si rievoca, con i gusci fiammeggianti delle lumache abbandonati sull’acqua, le cruenta battaglia navale fra Como e l’Isola Comacina, che portò alla distruzione di quest’ultima nel 1169.

Attingendo alla mitografia “coclearia” e agli eventi storici, Emilio Alberti (ormai invalso come artista che del lago e dell’acqua ha fatto propria principale fonte di ispirazione) sta producendo con tecnica digitale numerosi nuovi lavori ispirati ai luoghi e alla storia del Lario. Diverse sono state le sue presenze in passato sulle sue sponde e in territorio comasco con mostre dedicate e opere concepite site-specific. Spigolando fra le molte, va ricordata la rassegna “Acqua” presentata a Chiavenna, nel Palazzo Pretorio e dedicata a Leonardo da Vinci che nei suoi studi sui fluidi annota la cascata dell’Acquafreggia di Chiavenna: “Acqua fracta”. Così Leonardo scriveva nel “Codice Atlantico“: “Su per il Lago di Como, di ver Lamagna (Germania) è valle di Ciavenna, dove la Mera fiume mette in esso lago. Qui si truova montagni sterili e altissime con grandi scogli (rocce)… Su per detto fiume si truova cadute d’acqua di 400 braccia, le quali fanno bel vedere…”. Una seconda mostra della serie “Acqua” di Emilio Alberti è stata accolta invece al museo Etnografico e dell’Acqua di Albese, questa volta imperniata sul testo di Benedetto Giovio “B. Jovii Novocomensis de duodecim Fontibus Comum ambientibus, et uno in urbe media. Carmina” del 1529. Due sono invece le opere di Alberti collocate in modo permanente a Dongo a cura della Associazione Culturale Lake Art in collaborazione con il Comune di Dongo: l’una intitolata “Volo”, composta di tessere ceramiche per una superficie murale di 7 metri x 2,5 e posta nel 2018 in Viale Cavour, l’altra “Petul” di 5 metri x 2, installata sul Lungolago Rumi nel 2017. Una terza, dedicata alla “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio, sarà invece inaugurata prossimamente nel Parco dei Mosaici di Blevio.

Michele Caldarelli (luglio 2020)

Michele Caldarelli (Milano 1950) laureato in Architettura, giornalista, storico, semiologo e critico d’arte, dal 1977 dirige la galleria d’arte “Il Salotto” attiva a Como dal 1965. L’interdisciplinarità, con una predilezione per il rapporto arte-scienza, è il filo conduttore di più di un centinaio di mostre da lui curate in Italia, Europa, Stati Uniti e Sud America, per musei, università e istituzioni culturali. È responsabile del sito Internet www.caldarelli.it da lui creato nel 1996. Ha ideato e realizzato svariate pubblicazioni e libri d’artista tra cui i 60 titoli della collezione di minilibri “Minima Poetica” e la nuova collezione “8×8” costituita da inediti racconti, saggi filosofici, viaggi immaginari e manuali di sopravvivenza intellettuale.

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